Centosette anni fa, a Messina Venne giù il mondo alle 5 e 27 del mattino del 28 dicembre
DI VALERIO BARGHINI La storia, si sa, è fatta di corsi e ricorsi. Friuli, maggio 1976. Irpinia, novembre 1980. L’Aquila, aprile 2009. Amatrice, Arquata e Pescara del Tronto, Accumoli agosto 2016. Ma anche Messina centosette anni e qualche mese fa. Stessa tragedia. Anzi, forse la peggiore catastrofe del secolo: erano le 5 e 27 di un tranquillo (fino a quel momento) lunedì mattina di dicembre, il 28, una giornata in cui tutte le attività avrebbero dovuto riprendere dopo le festività natalizie. Sulla città dello Stretto, la sera prima, tutto normale con i nobili al Vittorio Emanuele ad assistere all’Aida di Giuseppe Verdi. Tutto normale, con l’imponente Palazzata (all’epoca ribattezzata «l’ottava meraviglia del mondo») in piedi, lì sul lungomare, tra le odierne via Vittorio Emanuele e via Garibaldi. Tutto tranquillo, con la statua della Vergine che ancora oggi ti accoglie all’ingresso del porto con quella scritta che, centosette anni e qualche mese fa, suonava quasi come una beffa: Vos et ipsam civitatem benedicimus, benediciamo voi e la vostra città. Poi, alle 5 e 27, laggiù negli abissi, accade qualcosa. E quassù pure: prima una violenta scossa, breve (trenta secondi appena) ma intensa, 7.1 l’odierna magnitudo. A cui segue, dopo un silenzio quasi surreale, un’ondata di maremoto, uno tsunami, che investe la città e tutti coloro i quali, istintivamente, si erano diretti verso il mare a cercare scampo. Era l’Italia di un impassibile Giovanni Giolitti: sembra che nulla lo scalfisse, tranne questo avvenimento (classificato nella scrupolosa ricostruzione fatta da Giorgio Boatti nel 2004, La terra trema, edizioni Mondadori, come il «più disastroso terremoto mai avvenuto in Europa») che qualche turbamento pare averglielo procurato. Era l’Italia del Regno dei Savoia, con la Regina Elena scesa sullo Stretto con il marito Vittorio Emanuele III per verificare di p e r s o n a l a situazione e che (lei sì) si prodigò molto, trasformando la propria nave in un vero ospedale, smettendo gli abiti regali per indossare quelli di crocerossina. Era l’Italia del generale Mazza, incaricato da Giolitti di gestire l’emergenza, capace solo di farlo a bordo di una nave, senza pressoché mai scendervi e pretendere (in un sistema al collasso) che le autorità locali rispondessero ai cosiddetti «ordini superiori», rispettando rigorosamente le gerarchie. Stessa tragedia e stessi numeri contrastanti: c’è chi parlò (tra Messina e Reggio Calabria) di centocinquantamila morti; chi di ottantamila a Messina e quindicimila a Reggio Calabria. Stesso problema degli orfani, duemila dei quali tratti in salvo dai marinai russi (i primi, pare, a giungere a Messina) ma molti altri spariti misteriosamente. Ma anche stessi provvedimenti, con la proclamazione dello stato d’assedio per tentare di evitare saccheggi e caos. Messina era distrutta, buona parte della cittadinanza pure. Ma non l’orgoglio dei messinesi. Dopo alcuni giorni si giunse alla decisione di interrompere le ricerche di eventuali altri scampati per dedicarsi ai vivi «certi». Addirittura a Roma pensarono di radere definitivamente al suolo e bruciare (per «risolvere» il problema dei corpi in putrefazione) quello che restava di Messina e ricostruirla da un’altra parte. Una decisione a cui i pochi messinesi scampati si opposero strenuamente con le poche forze rimaste. Lì sotto, anche a distanza di giorni, c’erano (potevano esserci) persone ancora vive. Si opposero con forza, coraggio ma, soprattutto, dignità: la stessa, oggi, dei cittadini di Amatrice, Arquata, Pescara del Tronto, Accumoli.
27/08/2016 12:00:00 - Pubblicato da Telepatti.it
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